Perché bisgna RI-leggere "I promessi sposi" di Alessandro Manzoni? Ce lo spiega Teresa Siciliano nel suo nuovo, bellissimo articolo!
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Del resto, come si fa ad amare un romanzo che si legge a spizzichi e bocconi per un intero anno scolastico, su cui si viene interrogati (e magari si prendono votacci) e su cui bisogna scrivere un’infinità di riassunti, confronti di personaggi, temi sulle questioni più importanti? Penso che nessun autore potrebbe sopravvivere a questo trattamento.
Eppure non c’è nella nostra letteratura un’opera che ci rappresenti meglio, nei nostri pregi e soprattutto nei nostri difetti.

Come è tipico dei veri romanzi storici, un po’ si vuole ricostruire la società lombarda del seicento, un po’ probabilmente si allude all’epoca contemporanea, nonostante allora la dominazione straniera fosse incarnata non dalla Spagna, ma dall’Austria, paese ovviamente molto più avanzato e moderno.
La cosa più interessante (o più terribile) è che la Lombardia manzoniana si identifica ancora con l’Italia di oggi. Quali sono i punti in comune?
Innanzitutto manca la coesione e la società è un insieme di lobby, diremmo oggi, in perpetuo conflitto/equilibrio fra loro. Il potere politico pensa esclusivamente al proprio interesse senza nessun pensiero per il bene del popolo ed è caratterizzato da inefficienza e corruzione. Non esiste giustizia, o meglio la giustizia sta sempre dalla parte dei potenti. Ognuno fa riferimento al corpo sociale di cui fa parte (don Abbondio ad esempio si è fatto prete per “procacciarsi di che vivere con qualche agio e mettersi in una classe riverita e forte”). I nobili fanno affidamento sulle loro parentele e clientele e si circondano di un folto gruppo di delinquenti, i cosiddetti “bravi”, per difendersi da qualunque attacco e per spadroneggiare su tutto il resto della popolazione.
La Chiesa ha due facce. Da una parte è quella della Controriforma: bada solo alle apparenze e quindi può succedere che il principe padre di Gertrude e la badessa del convento di Monza possano stringere un’alleanza per costringere la ragazza a farsi suora, pur ben sapendo che ciò comporta la scomunica. Dall’altra comprende persone come il cardinal Borromeo e fra Cristoforo, che si battono per il bene.
A tutto quello che lo Stato non riesce a fare sopperisce la parte migliore del clero: per esempio durante la carestia e soprattutto durante la peste. E chi pensa oggi ai poveri delle nostre città, se non la Caritas, sia pure con un aiuto economico da parte dei comuni?
Agli uomini di Dio che intendono così la religione Manzoni affida il compito di pensare alle necessità del popolo e insieme tenerlo quieto, in attesa che la parte migliore della borghesia modernizzi lo Stato e lo renda più egualitario. E ciò perché sulla base del fallimento, secondo lui, della rivoluzione francese è intimamente contrario ad ogni uso della violenza in politica: basta osservare la severità con cui guarda ai promotori e partecipanti dei tumulti nel giorno di S. Martino.
La moderazione di Manzoni non è mai conservazione. Il suo Dio è il dio giansenista, severo ma capace di scrutare fino in fondo ai cuori e pesare le diverse responsabilità.
Ad esempio, nel descrivere in che modo l’educazione nel convento spinge Gertrude verso il chiostro, scrive: “Non che tutte le monache fossero congiurate a tirar la poverina nel laccio; ce n’eran molte delle semplici e lontane da ogni intrigo, alle quali il pensiero di sacrificare una figlia a mire interessate avrebbe fatto ribrezzo; ma queste, tutte attente alle loro occupazioni particolari, parte non s’accorgevan bene di tutti que’ maneggi, parte non distinguevano quanto vi fosse di cattivo, parte s’astenevano dal farvi sopra esame, parte stavano zitte, per non fare scandoli inutili. Qualcheduna anche, rammentandosi d’essere stata, con simili arti, condotta a quello di cui s’era pentita poi, sentiva compassione della povera innocentina, e si sfogava col farle carezze tenere e malinconiche”. Accanto alla netta condanna delle monache ‘politiche’ (e dell’istituzione), c’è spazio per distinguere le varie responsabilità personali.
Forse ora sarà chiaro perché Manzoni, nonostante il suo rigore morale, non è mai piaciuto molto ai cattolici, che potremmo definire integralisti: lo scrittore che in un solo romanzo aveva inserito un parroco vigliacco, un frate assassino e una monaca… (avete capito), poteva mai essere da loro approvato?
Davanti alla domanda “perché il male” Manzoni non sa rispondere: per questo, secondo me, è improprio definire I promessi sposil’epopea della Provvidenza: Dio certo esiste e certo volge tutto al bene, ma in modi e forme che noi non comprendiamo. La peste porta via don Rodrigo, ma anche fra Cristoforo. Renzo e Lucia si sposano e vivono felici, ma i guai, magari più piccoli, continueranno a tormentarli. Donde la conclusione lieta, ma senza idillio, come la definisce Raimondi.

Se fate un confronto con Stevenson, vedrete che siamo agli antipodi: nel Dottor Jekyll e Mister Hyde, ma anche in altre opere di quello scrittore, è il male a prevalere sul bene. Senza scampo. Forse perché ormai siamo vicini al Novecento e molte illusioni stanno cadendo. Forse perché semplicemente si tratta di due concezioni della vita profondamente diverse.